Testo di Silvio Benedetto per una mostra fotografica di Giovanni Rizzo.
“Il concetto di ‘testo definitivo’ appartiene unicamente alla religione o alla stanchezza.”. 
Jorge Luis Borges
L’INFAMIA
Nella sua «Storia universale dell’infamia» Borges racconta che ad un tale quando morì fu assegnata una casa, nell’altro mondo, illusoriamente simile a quella che egli aveva avuto sulla terra. Credeva di non essere morto. Tutto era uguale: oggetti, cassetti, stanze, attrezzi, tutto insomma. E appena Melantone (così si chiamava quel tale) si svegliò in questo nuovo domicilio riprese le sue attività come se non fosse mai stato cadavere. Poi gli angeli lo interrogarono… Poi tutto si dissolse fino a diventare invisibile tranne… Ma quella è un’altra storia…
OVER-DUBS
Chissà se qualche tale, tale a quel Melantone di Borges, ignaro di essere morto, abiti ancora quella masseria abbandonata (tra poco denominerò); o se un altro tale stia ancora seduto in quella barca aspettando il mare propizio,  guardando alla sua sinistra il faro e di fronte Marettimo lontana (tra poco dirò); o se un terzo tale respiri ancora acqua salmastra (a Trapani: racconterò).O forse all’interno delle immagini (quali? tra poco descriverò) che Giovanni ha catturato bisbigliano ancora le voci del silenzio. O forse, invece, over-dubs portano a noi questi sussurri inquietanti.Mettiamo ordine. Cerchiamo, almeno. (Dopo il Caos venne l’intelletto e mise l’ordine, promulgò Anassagora). Concretezza, semplicità, concisione. Prudenza, giustizia, fortezza, temperanza (esagerato!). Arti del trivio! (esagerato). Mettiamo ordine. Abbisogna enunciare. Dunque?
LA MOSTRA FOTOGRAFICA DI GIOVANNI
Dunque: Giovanni Rizzo esporrà tre sue fotografie, unite in trittico, a Campobello di Licata (Agrigento) nel Liberty Quadro (no Floreale, no Art Nouveau, no ville di Palermo ed Aspra) dove troveremo Beppe Napoli e tanti amici fans dell’arte e della cultura. Accompagnerà la mostra uno stampato contenente questo scritto, la riproduzione del trittico e indicazione “dal… al…”. Ma prima per correggere questo testo dovrò ancora una volta ricorrere all’aiuto di Silvia Lotti. Scarabocchi sul foglio non più albo? Silvia dovrà decodificare e non solo. Più vado avanti più la mia calligrafia, già svirgolata tronca incompleta, si muta in una specie di gamelot trascritto. Sillabazione erronea per non lasciare spazio tra parola e parola perché, forse, la mano gareggia con la mente in questa mia vita di transumanze che è anche uno zibaldone. Ci vuole Silvia grafologa. Ci vuole anche, dicevo, concretezza, semplicità e concisione: necessario dunque tornare alla mostra fotografica di Giovanni. Tre fotografie. Scatti (unici nei luoghi) dell’aprile 2018. Ripresa con Nikon D750 reflex digitale con obiettivo grandangolare 24 mm. decentrabile: «Barca» sull’isola di Favignana, «Garcitella» a Campobello e «Salina» a Trapani (titoli miei arbitrari). Ingrandimenti su carta fotografica satinata uniti in trittico, cm. 200x80, montati su supporto forex. Spazio tra i soggetti? Poco meno di un centimetro. (Inquadrature in sede di ripresa o di stampa?). Sono stato chiaro, senza sforzo particolare, malgrado la mia incoercibile capacità di confondere, di mescolare, di associare, di ‘andarme por las ramas’. Vediamo di continuare così.
L’AUTORE E NOI: BIUNIVOCITÀ    
Potrebbe incidere in noi, nel vedere le foto, la conoscenza o la familiarità dei luoghi ritratti e la memoria della loro storia? Cosa succederebbe se queste fossero esposte in altre città, sprovviste di didascalie, notizie? Vediamo. E Giovanni come si è collocato davanti ai soggetti? Da lontano, guardando verso il richiamo (ad-spicere), o spostandosi centralmente e avvicinandosi (pro-spicere), volendo soltanto quella particolare prospettiva, quell’inquadratura? Dualità contemplazione-riflessione oppure ‘colpo di fulmine’ e reflex? Contemplazione: dialogo della parte di sé conosciuta con lo sconosciuto trovato? La compenetrazione tra pensiero e realtà non viene distanziata dalla riflessione? Attimi. (Quanti atomi-quanti! Un tomo si potrebbe scrivere). Teniamo conto  dell’auto-comunicazione dell’autore davanti ai soggetti? Soggetti trovati o ricercati? Quale modalità, o quale capacità, la nostra, di accostarci alla sua auto-comunicazione? Come Giovanni ha vissuto l’istante in cui si trovava davanti a quel silente abbandono? Davanti ai ruderi tra Campobello e Licata? (Dove la mia testarda fantasia potrebbe trovare quel tale Nuccio D’Alagna che fonda una Nuova Colonia attorno alla torre Gargir, che cerca di far rinascere la sorgente e lotta contro la filossera per riattivare il palmento). Come Giovanni ha vissuto la salina abbandonata dell’Isola Lunga? (Dove la mia testarda fantasia scorge, nel fango delle vasche abbandonate, un burbujar di vongole selvatiche e, più in là, cadenzate danze di fenicotteri e saltellanti conigli e, più in là ancora, lo Stagnone e, più oltre, Mozia da dove l’Efebo ci guarda). Come Giovanni ha vissuto la scheletrica carcassa della mezza barca a Favignana? (Qui la mia testarda fantasia rimanda a più tardi). Poco sopra dicevo “colpo di fulmine e reflex”. Riflettendo, colpo di fulmine sì, ma poi riflessione: Giovanni si sposta, si colloca in un punto di percezione visiva centrale, installa il cavalletto, calibra i tempi ottimali di esposizione. Stop. Allontaniamoci dal momento dello scatto e torniamo alle immagini nella loro ‘veste’ espositiva. Sottolineo “espositiva” perché Giovanni ha voluto presentarci questo trittico in grande formato (osservarlo, tipograficamente ridotto, dove la ricezione è condizionata da durata e provvisorietà, è un altro ‘paio di maniche’). Qual’é la nostra possibilità di interagire con la comunicazione successiva dell’autore? Come interagire con ciò che egli vuole trasmettere esponendo pubblicamente? Ora che il contenuto è trattato e trasferito a livello artistico? (L’arte si allontana dall’ordinario, dal quotidiano). L’estetica di Giovanni, comunque, è un messaggio. Si frammischiano, interagendo, relazioni di ordine storico, psicologico, socio-culturali, semiologico (soprattutto nella «Barca» dove l’ottima tecnica si oblia per dar luogo a un differenziato, a un extra-fotografico). Decodificazione ? Distruzione?
POLISEMIA, CO-PRODUZIONE
Le immagini ‘lette’ vengono ora ‘riscritte’. Il visitatore (osservatore?) non soltanto ‘consuma’ ma anche ‘produce’. L’immagine può diventare altro, altro ancora se spostata altrove (ibidem, o meglio midemma). L’immagine trascende, ‘trabocca’ (Bodei potrebbe dire che trabocca similmente a una fontana overflow). Il soggetto non è cristallizzato, ingabbiato. La ‘lettura’ diventa performativa. Origina molteplici possibilità di senso pur nel fermo-immagine apparente. La foto ci interroga, ci turba. Realtà morta? Latente irrealtà. Opere esposte, documento-testimonianza del reale sì ma vissute da noi con la memoria della nostra vita interiore, dimensione favolosa della nostra disponibilità sovente addormentata nel voler andare oltre. Vedere la nostra scena interiore, questo sì. Non il ‘teatro’ fittizio. Soltanto la nostra scena interiore assunta, ora, a generatrice di ogni prodigio.
QUOD SCRIPSI, SCRIPSI (Giovanni: 19,22)
Cerchiamo di ricominciare. Avanti, a meno che il mio ingegno sia tardo. Ci vorrebbe la gradatio (dell’itinerarium di Bonaventura) attraverso la quale la mens ci attivi alla pace contemplativa. Un percorso ‘semplice’, insomma (mi vedete? così? dentro il trattato di mistica duecentesca? A proposito, siete stati a Bagnoregio?). Il mio tempo cronologico non è il tempo delle foto. Ed il mio tempo non è il tempo dell’orologio. Lasciamo stare se ‘si pensa o si crede’ (Os-si di seppia montaliani, monta-ali l’uomo per osare volare). Lasciamo stare se illuminismo o religione. Se pubblico o privato, astratto o concreto, Mina o Milva, mente o corpo, Ikea o PoltroneSofà, Croce o De Sanctis, Lego o Meccano, Bambi o Ninja, Roma o Lazio, Timeo o Estetica Nicomachea, illusione o realtà, apparenza o sostanza, Freud o Jung, Pirandello o Strindberg, mascherina Covid si o no, essere o avere, autostrada o provinciale, ravioli bietole o spinaci, pittura o fotografia.  Ecco, fotografia! Stop. Finito il delirio dei versus, torniamo alla mostra di Giovanni. No, un momento (mòviti cà!) torniamo sopra. Fotografia: arte si o no? (Ma signori! Ancora!). Il fotografo soltanto un dito?! “Soltanto una mano” come il pirandelliano Serafino Gubbio operatore cinematografico? …Mah!
GUARDIAMO IL TRITTICO SICILIANO
Guardiamo le foto? No, le foto ci guardano. Immagini che ci guardano, ci interpellano. Così ho scritto sulla pittura di Eliseo Andreoli tempo fa (La Spezia, 2018): nei suoi soggetti silenti assente l’uomo; assente-presente da quelle catapecchie, da quei fabbricati dismessi che egli visita sulla tela coi suoi colori. (La memoria implicita mi porta in questo momento dai soggetti del carrarino Eliseo alla foto «Garcitella» dell’agrigentino Giovanni). Ma torniamo al trittico. Cantina dismessa a GARCITELLA al centro, SALINA trapanese alla sinistra di chi guarda e alla restante destra BARCA a Favignana (il tutto, come già detto, arbitrariamente da me denominato): e così sto raccontando quanto promesso in apertura. Luoghi non silenti in sé: virati, sviscerati, sfibrati, scarniti dal vento, dal tempo, dalla sabbia, dall’indifferenza, dall’alito del business. Non soltanto silenti in sé ma, piuttosto, perché essi creano in chi li osserva (in chi sa farlo) uno spazio di silenzio (in un mondo di frastuoni), e dunque ci portano a rivolgere lo sguardo dentro noi stessi, abbandonando il Super-io, forse anche qualcuno dei nostri tanti ‘io’. Tracce, ricordi, voci soffocate: fuori e dentro. Giostrano nel labirinto complesso della memoria. La mia ‘memoria implicita’ mi apporta altre immagini: appena nominata, la pittura di Eliseo, ma già tante altre immagini accorrono. La mia ‘memoria esplicita’ mi apporta, invece, parole, ricordi, racconti campobellesi narrati da Totò, Lillo e Rino: leggende e storie dei luoghi. Luoghi conosciuti? Imago della memoria? Luoghi dell’immaginario? Luoghi della phantasìa? O forse della memoria ‘artificiale’ cara a Cicerone?
INSERTS, OVER-DUBS, ASSOCIAZIONI
Non posso farne a meno. Le strutture silenti di Giovanni fanno accorrere alla mia mente carovane. Ho già detto di concomitanze, non formali ma di propositi, con le tele di Eliseo Andreoli ed ora mi arrivano le destrutturazioni dipinte di Luisa Racanelli, i torsi mozzi di Olga Macaluso! (Cercate per visionarli). Nel rileggere qualche riga sopra “silenzio” piombano: mistico, il silenzio di Sant’Agostino accanto al ruscello; gentile, «La voce del silenzio» di Mina; tremende, la poesia «Silencio» di García Lorca assassinato dal franchismo nel 1936 a Granada, le urla contro il silenzio complice nel Museo del Genocidio di Tuol Sleng, le mani e la chitarra azzittite di Victor Jara ucciso nel 1973 dalla dittatura cilena. E poi penso a questo, a quello. Si rischia il non gradito rococò? Techetechetè, dada umpa, tuca-tuca, chissà, ma, me, ma perché. Continuare a scrivere ad libitum non ha senso. Sì, ce l’ha.
CAMMINO TEMPO FA IN UNA STAGIONE DELL’ETERNITÀ
“Quando il sole mutava sui monti le ombre e induceva a togliere i gioghi dai buoi affaticati”. Salutando ancora Cicerone e, tra poco, anche Cerere, camminavo. Dove? Nell’in diebus illis del foglio. Cammino distratto dall’esistenza umana e cosmica. “A poco a poco i campi imbiondiranno per le spighe flessuose” (flessuose sì, Virgilio, le spighe, ma tremanti temendo la falce tagliente, timor et tremor). Camminando ancora con distacco fisico e mentale, astraendomi forse, esco da Campobello in un solstizio d’estate per trazzere e strade secondarie, transumando me stesso verso la Contrada Principe (o Montalbo?), calpestando (non volendo ma incurante) margheritine, citronelle, formiche e facendo scoppiettare cucummarieddi. È questo il sentiero verso la masseria diroccata della Garcitella? O mi trovo in mezzo a pietre di gesso roventi, luciccanti come lacrime trattenute? In alto, la Favarotta (dove si trova il rudere della stazione ferroviaria dove abitano i pipistrelli?). O forse cammino nell’infuocato ocra petroso e sono già nella miniera Passarello? E più in là (dove?) la villa baronale, “quella dalla bella inferriata”? Poco distante una chiesetta dagli echi messali di padre Avanzato  e, ‘indietro’ ancora – oltre la Piana, i meloni e i carciofi – echi di soldatesche okay provenienti dallo sbarco di Licata (dove si trova la Bifara?). Ovunque fichi d’india. Una cavallina si accanisce, pur essendo mosca, sul mio calcagno: scalpito e saltello. Un falco pellegrino (poiana?) guarda me pellegrino. Stupore (che con il suffisso ‘nd’ può diventare stupendo). Io ospite, straniero, ricercato dagli occhi di una lucertola felice della calura e dell’essere scampata alla petra pirandelliana tra ronzii e tra finocchietti selvatici e cardi contorti. Altri occhi non videro, non vollero, forse ieri, l’allontanamento fischiettante di adolescenti  bianchi che avevano lasciato il macabro trofeo di un canuzzo impiccato col fil di ferro ad un vecchio, rugginoso, infuocato cancello. Non erano certo i pastorelli soprammobili in porcellana Copenaghen, né quelli del seicentesco «Et in Arcadia ego» dipinto dal Guercino, né i contadinelli degli ottocenteschi presepi napoletani. Vedo nel mio meriggio l’orrore ronzante. Mi allontano. (“Carusi!”. Mi diranno altri carusi cresciuti). L’estate volge a termine e Proserpina si appresta a tornare al mundus patet… – “Silvio! Torna alla mostra!”. Da quell’epicentro non sono mai uscito. Quelle foto, pur fissate al muro, guardandole bene sono semoventi e questo mi infervora. Va bene. Forse esagerato ma non maniacale. Altrimenti poco sopra invece del vernacolo cucummarieddu avrei scritto (grazie Totò) ecballium elaterium (cocomero asinino); o dei fichi d’india avrei detto che sono parenti dei nopal messicani sui quali si posò l’aquila della bandiera; o, all’inizio di questo scritto, chiamato in causa Anassagora, avrei precisato che “Dopo il Caos venne l’intelletto e mise l’ordine” fu il titolo di uno spettacolo teatrale da me realizzato a Roma insieme ad Alida Giardina; o, più avanti, avrei ancora chiarito che l’Efebo forse ebbro, di profilo nell’etichetta guttusiana del Libecchio Bianco del Barone di Turolifi è il bronzo di Selinunte e non il marmo di Mozia. Ciao. Pausa caffè.
SGUARDO (ANALITICO?) SU OGNI PARTE DEL TRITTICO
(“Lo si vede solo col cuore”, così diceva il Piccolo Principe). Il trittico SALINA-GARCITELLA-BARCA, nomenclature arbitrarie (ibidem): 
«Salina», senza persone senza lavoro senza salario.
«Garcitella», cantina dismessa. Maxi pezzi di Gig robot d’acciaio, silos caduti senza mosto né vino, cantine da Dioniso abbandonate.
«Barca» spezzata. Carcassa dissecata senza echi ritmici del mastro d’ascia. (Insert: Tucumán; bestiame; ricordo adolescenziale; centinaia di carcasse, ossa calcinate dalla siccità e dal sole.).
Trittico della de-solazione. Bellezza? Estetica del dolore. Via! Vai via Sol invictus! Vieni Luna pallida, vieni notte! Galoppa sulla tua cavalla cupa spargendo spighe viola-nero ché non voglio vedere pensiero e sentimento fuggire! L’uomo, risucchiato nel magma della negatività, in questo thearum mundi, ha smarrito, perso, il potere di credere, di ricordare. Atahualpa: “los hombres son dioses muertos de un templo ya derrumbado”. Giovanni: queste tue foto travalicano il tempo contingente. Immagini non soltanto di conoscenza del mondo, delle cose, della storia, ma anche di noi coinvolti spettatori. A questi simulacri oggi di se stessi, oggetti desueti dimenticati nel bric-à-brac del mondo, tu hai dato quel che Landolfo esigeva inutilmente per i suoi “fantocci”: il contenuto. All’io narrante non mancherà di sottolineare “Bravo Giovanni!”.
PRAEFATIO TARDIVA OSSIA POSTFAZIO
Ho conosciuto, ritrovato ragazzo, Giovanni Rizzo nel 2019 al Liberty Quadro (da piccolino disegnò con me – quale occasione? – un cavallo: album e profumo di matite). Silvia Lotti nello stesso locale, in quell’ottobre campobellese, doveva montare la sua mostra «Racconti da guardare». Pertanto smontare la mostra precedente. Era quella di Giovanni Rizzo. Sedici belle foto. Scatti di Cuba. Inquadrature urbane frontali, volutamente bidimensionali, terse e pulitissime, non eclatanti, dense di un curioso apparente timido distacco emotivo, come quello delle persone sempre lontane inserite nel contesto. Non ritratti. Smontarle dispiaceva. Dura lex sed lex. Beppe ci presenta: Giovanni. Piacere. Piacere. Dispiace smontare. No, si figuri. Diamoci del tu. Silvia. Silvio, si lo so. Montiamo calcolando gli stessi chiodini (non ci piacciono le traballanti catenine dorate) per non ferire la parete (smonteremo le opere di Silvia nel gennaio 2020 in occasione di un mio omaggio a Lillo Guarneri per poi partire per Roma). Caffè. Caffè. Si, macchiato. Giovanni discretissimo ma soddisfatto ci fa vedere trasportati nel suo telefonino, tre scatti panoramici: una mezza barca a Favignana, una cantina dismessa alla Garcitella, la salina abbandonata di Trapani.
POST SCRIPTUM
In primis Giovanni pensava di lacerare gli ingrandimenti. Per enfatizzare tristezza, rabbia forse. Non so. Lui non parla tanto (va bene così). Pensava. Roma-Campobello. Giovanni, le tagli chirurgicamente o non le tagli? Oppure strappi solo la gelatina lasciando intravedere il supporto? Strappo dritto o trasversale? Non so… aspetto gli ingrandimenti da Catania, dice. Ti saluto, ti saluto. Giovà, tagli? No, no. Definitivo? Si, si. Ciao, ciao.
CODICILLO
Giovanni, ti invierò per mail, non brevi-manu. Per ora gatta ci Covid.
N.B.: grazie delle tue foto, Giovanni.
Silvio Benedicto Benedetto, Roma 2020, consumata la luce di settembre con finestra aperta sul Lungotevere e tiepida arietta.

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